Stampa questa pagina

INTERVISTA - A colloquio con Francesco Moser

“Spero che il Velodromo degli Ulivi di Monteroni rinasca presto, se coperto meglio ancora. Vi prometto che sarò qui per l’inaugurazione”. Francesco Moser tira la volata per la ristrutturazione del glorioso impianto, dove nel 1976 si laureò campione del mondo conquistando l’oro nell’inseguimento individuale.

Dopo aver ricevuto nell’aula consiliare le “chiavi” della città, è arrivato in bici al Velodromo degli Ulivi. Prima di salire in sella l’elogio di Moser al suo “successore”, ovvero al giovane Filippo Ganna, 19enne piemontese, che ai primi di marzo è diventato campione del mondo nell’inseguimento individuale sulla pista di Londra, riportando quindi in Italia la maglia iridata: di nuovo un oro italiano 40 anni dopo l’impresa monteronese di Moser.
Al “Degli Ulivi”, il campione trentino ha fatto tappa davanti ai ruderi, insieme al calore e all’affetto di tanti appassionati, tra foto, autografi e strette di mano. Quindi, ha rincontrato il cronometrista di quella magica finale mondiale. E l’emozione di quel luogo - oggi ridotto ad un cantiere chiuso - ha dato la stura ai ricordi del settembre 1976 e della maglia iridata.
Al campione non sono poi sfuggiti i dettagli del “ricostruendo” Velodromo. E quasi con premura paterna verso quella pista, si è soffermato “sul raccordo fra la pendenza della curva e il rettilineo: deve essere preciso al millimetro - ha detto - altrimenti quando si gira a 50 all’ora non riesci a tenere la corda, mi auguro che questo fatto sia stato valutato”. In Salento, peraltro, Moser ha presentato il suo libro “Ho osato vincere” (Mondadori), scritto insieme al giornalista Davide Mosca. E nel sottotitolo c’è il compendio della storia dello “Sceriffo”: “Ho vinto spesso, qualche volta ho perso, non ho mai partecipato”.

Una ristrutturazione incompleta e una struttura in stato di abbandono. Moser, che effetto le fa, a 40 anni da quell’impresa, rivedere la pista in queste condizioni? 

Mi fa una brutta impressione. Nell’arco degli ultimi vent’anni e più non si è riusciti a rimettere in piedi questo Velodromo. Spero che questa storia finisca presto e che il nuovo impianto torni ad ospitare le gare e magari anche di nuovo i mondiali.

È una struttura, quindi, che può tornare ad essere un punto di riferimento per il ciclismo che conta? E che suggerimenti si sente di dare?

Penso di sì: il Velodromo può tornare nell’olimpo del ciclismo. Oggi però servono strutture coperte, questa è la tendenza: i calendari sono cambiati e i mondiali su pista si svolgono tra l’autunno e l’inverno, lontani dalle corse su strada. E siccome si stanno spendendo soldi per ristrutturare, sarebbe bello pensare in grande e fare il nuovo Velodromo coperto. Ovviamente, servono denari e non si chi si prenderà quest’onere. In Francia però sono molto più avanti: hanno cinque o sei velodromi coperti, in Italia appena mezzo. Il problema delle piste scoperte, peraltro, è che sul cemento bisogna applicare delle resine epossidiche che danno grande scorrevolezza. Ma con l’umidità sulla resina si rischia di scivolare e di farsi male. Tuttavia, una volta rifatto, dovrà essere gestito nella maniera migliore. Al Nord ad esempio sono le società sportive a condurre simili strutture. L’importante però è che sia efficiente e non finisca nuovamente abbandonato. Meglio pochi impianti, ma attivi e fruibili a tutti i livelli: per le gare ufficiali, per l’agonismo, per gli allentamenti ma pure per gli amatori.

Che futuro intravede per il ciclismo?

Un giovane corridore italiano, dopo 40 anni dal titolo iridato che conquistai qui a Monteroni, a Londra ha vinto di nuovo l’oro nell’inseguimento individuale. Una coincidenza piacevole. Tuttavia, mi sembra che le cose in questi decenni siano cambiate in peggio. Oggi è più difficile fare ciclismo, soprattutto al Sud. Ad esempio, il movimento dilettantistico era basato sui giochi olimpici e le Federazioni preparavano i giovani per quell’appuntamento. Adesso invece alle Olimpiadi partecipano anche i professionisti che hanno già il Tour, il Giro, i mondiali, le classiche e via dicendo. E così è stato tolto alle società dilettantistiche uno scopo importante per portare avanti l’attività e crescere giovani ciclisti.

Qualche ricordo di quei mondiali del 1976…

Dopo la sconfitta al mondiale su strada di Ostuni dove presi l’argento, c’era voglia di riscatto: i mondiali su pista peraltro era stati posticipati rispetto a quelli su strada, per consentirmi la partecipazione a entrambi. Eravamo in ritiro a Porto Cesareo e per sostenere gli allenamenti facevano avanti e indietro dal Velodromo ogni giorno in bicicletta. Il commissario tecnico era Antonio Maspes, ma a quei mondiali mi seguì un altro campione come Gianni Pettenella che mi procurò il casco bianco che indossai in finale, uno dei primi caschi aerodinamici. All’epoca la pista era in legno, un vero gioiello. Un impianto nuovissimo che trasmetteva grandi emozioni. Purtroppo, però, una pista in legno, se non coperta, non poteva resistere alle intemperie. Ricordo che le gare furono molto impegnative: nonostante qui sia una zona ventosa riuscii a correre veloce. Fare bei tempi con il vento non è mai semplice.

 E fu l’inizio di una grande storia di sport che l’ha portata ad essere l’italiano che ha vinto di più nella storia del ciclismo.

È vero. Diventai professionista nel 1973. Ma nel 1976 cominciarono gli anni più belli, importanti e pieni di successi della mia carriera agonistica. Il Giro d’Italia e il record dell’ora del 1984 arrivarono quasi poco prima del ritiro.  Quindi, tante emozioni, tanti ricordi indelebili sono legati a quei mondiali di Monteroni. E prometto di tornare presto per inaugurare la nuova vita del Velodromo. Spero quanto prima.